venerdì 20 novembre 2009

La Piovra Rai

Gli sconvolgenti numeri della RAI
La Piova Rai, Sprechi. Vizi e privilegi della televisione di Stato, è l’ultimo libro-inchiesta di Denise Pardo, il cui scopo sembrerebbe quello di aprirci gli occhi su una delle più importanti aziende pubbliche italiane. Ne viene fuori la radiografia di una casta sovrabbondante, in cui le cariche, le seggiole e le poltrone sono decisamente sproporzionate rispetto alle effettive necessità dell’azienda. Il libro è un dettagliato elenco di cifre, numeri, e circostanze che dovrebbero provocare in ognuno di noi, quantomeno, un senso di disorientamento, invece, ahimè, come sempre più spesso avviene nel nostro Paese, di fronte alle denunce, documentate, di fatti “non del tutto cristallini”, si rimane forse delusi, ci si sente truffati, ma poi tutto svanisce, e si torna a pensare al nostro piccolo orticello personale. D’altronde, non c’è da meravigliarsi, visto che da più parti ci giunge la segnalazione che il nostro “senso morale”, è decisamente in ribasso, su tutti i fronti. Il libro della Pardo ci racconta avvenimenti e situazioni, che dovrebbero “scandalizzarci” e renderci promotori di una rivolta, invece dubitiamo che tutto ciò avverrà, perché l’abitudine a subire e la nostra mancata ribellione, sono divenuti i veri assi nella manica di chi gestisce la cosa pubblica. Non è un libro accattivante in senso stretto. Rimarrà deluso chi l’ha acquistato aspettandosi di trovarci aneddoti curiosi, e forse anche un po’ di gossip, di cui gli italiani sono ghiotti, e invece no, niente di tutto ciò, solo il racconto della moltiplicazioni di poltrone, di direzioni e di società; dei pezzi di palinsesto elargiti in cambio di voti, dei nullafacenti “forzati” ma profumatamente pagati con i nostri soldi, di assegni di “fine rapporto” milionari, di lotte fratricide e naturalmente di dipendenza dalla politica. Questo è il quadro, sconcertante, della RAI, televisione del servizio pubblico, una città nella città, che nel 2008, ha pagato lo stipendio a ben oltre 13 mila dipendenti, ai quali si sommano altri 43 mila collaboratori; pare che la dicitura dei loro contratti reciti: per carenza di organico! Ma c’è di più, nonostante il numero enorme di dipendenti, la RAI, sempre più spesso si avvale di collaboratori esterni e di appalti con altre società. Ne sono un esempio i famosi Format, le varie “Isole dei famosi” e perfino “Che tempo che fa…” . C’è da rimanere sbalorditi, e c’è da chiedersi, ma perché tutto ciò? Non ci sono già abbastanza persone valide, e capaci? Perché comprare, spendendo altri soldi pubblici, programmi prodotti da altri? Mah, a noi umani, normali, tutto ciò non appare chiaro. Uno dei capitoli più spietati del libro, è quello intitolato `Il sacro e noto teorema di Tabgà”, luogo dove, secondo i Vangeli, Gesù moltiplicò pani e pesci; la metafora è chiara, la citazione è molto più che un’allusione, perché la Pardo, ci racconta come, i “graduati” in Rai siano numerosissimi, quasi quanto i soldati semplici. Altra nota dolente è l’analisi della situazione dei Tgr. La testata conta 851 persone, di cui ben 689 giornalisti, ed è diretta da Angela Buttiglione, che la Pardo ribattezza `Sister Angela` per la sua fede cattolica e la grande vicinanza, non solo ideale, al Vaticano. La Pardo ci racconta che la Buttiglione dirige la Tgr, non dalla scomoda e decentrata Saxa Rubra, ma da un ufficio nel palazzo Rai di Borgo Sant`Angelo, a due passi da Vaticano, dove, peraltro, la Buttiglione sarebbe di casa, perché spesso è ospite del Pontefice. Ce l’ha un po’ con la Tgr, di cui racconta, come in alcune regioni si rasenti il ridicolo. Per esempio nella sede di Cosenza ci sono 8 tra capiredattori, vice e capiservizi, cioè tanti quanti sono i dipendenti effetti della sede. Idem in Sicilia, dove, tra le sedi di Palermo e Catania ci sono ben undici graduati. Ma al danno si è aggiunta la beffa, perché come ci ricorda la Pardo, recentemente, è stata introdotta la trasmissione Buongiorno regione, per la quale è stato bandito un concorso per nuove assunzioni. Di positivo c’è il concorso, sempre che sia stato regolare, ma ci si chiede, legittimamente: ce n’era proprio bisogno, visti i numeri?! Se poi consideriamo che i nuovi notiziari del mattino a diffusione regionale sono frutto di un`operazione che costerà 40 milioni di euro… la risposta dovrebbe essere scontata. Invece pare siano tutti soddisfatti, perché, grazie a questa nuova trasmissione, sono migliorati i rapporti con le istituzioni locali. Ah però! Tanto di cappello. La Piova Rai racconta anche delle illogiche e stratosferiche multe pagate dalla televisione di Stato; si avventura nei meandri delle buonuscite milionarie, delle misteriose sparizioni di documenti e delle lotte intestine e fratricide. Sono tutti episodi amari, gravi, se si considera che in ballo ci sono milioni di euro dei cittadini sprecati. Tutti noi capiamo bene come la Rai, essendo una grande azienda, possa avere molti problemi, ma sappiamo anche che ha grandi potenzialità ed è una ricchezza per il nostro Paese, ragion per cui, forse, le cose dovrebbero essere affrontate diversamente, partendo da ben altri principi, e non dalla politica e dall’opportunismo. Il legame con la politica appunto, è un altro degli aspetti spinosi di questa azienda. Alla Rai sono passati tutti, e lei, li ha digeriti tutti, dai bianchi ai rossi, dai socialisti ai fascisti, fino a Forza Italia. E’ successo di tutto, dalle guerre satellitari, al conflitto d’interessi, ai clientelismi, agli infiltrati, alle segretarie del premier divenute dirigenti di settori cardine, alle intercettazioni, agli editti bulgari, ai quattrini dilapidati… Insomma, qualcuno potrebbe dire, che è già un miracolo che stia ancora in piedi. E invece nonostante tutto in piedi ci sta eccome, ma solo perché è una piovra dai lunghi tentacoli, che un punto cui aggrapparsi lo trova sempre. Luigina Dinnella
Denise Pardo
La Piovra rai
Sprechi, vizi e privilegi della televisione di Stato
Grandi Passaggi Bompiani
192 pagg.
17 euro
Maggio 2009

Venuto al mondo... a metà

Venuto al mondo… a metà

Esistono varie tipologie di scrittori, quelli che esplicitano per filo e per segno tutti gli aspetti e le sfumature del proprio racconto, e quelli che invece procedono per sottrazione, fidando sull'implicito ed il non detto. Il nuovo, fluviale romanzo di Margaret Mazzantini, Venuto al mondo, rientra nella prima tipologia, non solo e non tanto per la sua dimensione (più di cinquecento pagine), ma prima ancora per la vastità dei temi trattati e per la scrittura che li sostiene. Per dirla con parole semplici, c’è “troppa carne al fuoco”. Il temerario romanzo, racconta di cose del calibro della vita e la morte, la pace e la guerra. Gemma riceve una telefonata da Sarajevo, è un vecchio amico che le chiede di tornare in quella città che ha significato tanto per lei. La donna decide di affrontare il passato recandosi a Sarajevo insieme al figlio perché vuole che veda quella città in cui lei aveva conosciuto e amato Diego, quel padre che il ragazzo non ha mai conosciuto perché rimasto vittima indiretta della guerra che ha insanguinato la Bosnia. L’arrivo è la riapertura di una ferita. Il romanzo dovrebbe ferire, lacerare, sconvolgere, e denudare ogni falsa coscienza, insomma buttarci in mezzo al dolore senza offrire ripari. Ma ci riesce solo in parte; se solo fosse stato meno lungo, meno descrittivo, meno volutamente etico, forse… Il messaggio che ogni lettore alla fine porta con sé, dell’idea che anche dall’orrore possa nascere qualcosa, lo si deve alla vita che ce lo insegna. Gemma, descritta come una sorta di eroina, in realtà, appare come una figlia privilegiata dei nostri tempi, e suscita, a dire il vero, anche un po’ di antipatia e di rabbia, perché alla fine, risulta una donna grigia e mediocre, perché la sua disperazione per la sterilità, sembra dovuta più alla paura di perdere l’uomo che ama, che non alla gioia negata di avere un figlio. Il libro ci racconta una storia di guerra ma non aggiunge nulla a quanto mediamente noi italiani sappiamo, poco o nulla, degli eventi bosniaci di quegli anni. Né ci aiuta a conoscere meglio le popolazioni coinvolte. La dimensione dell’opera è oltretutto appesantita dai lunghi passaggi, meramente descrittivi, ed anche la storia d’amore appare abbastanza stereotipata. Non se ne può più della “ragazza di buona famiglia” che si innamora “dell’intellettuale vagabondo”! E’ un cliché troppo abusato. Il riscatto del libro risiede nella capacità di introspezione psicologica della Mazzantini, e nel finale in cui l'autrice aggiusta il tiro, ma soprattutto nella trattazione, assolutamente particolare, della figura paterna. E’ proprio il tema della paternità, per come viene sviluppato, che dà al romanzo un’interessante “lettura”. C’è il padre di Gemma, che nel silenzio funge da mentore di tutta la famiglia. C’è il padre assente di Diego, venuto meno al suo ruolo, perché morto giovane. C’è Gojko, l’amico bosniaco di Gemma, che decreta la fine dell'infanzia di Pietro, iniziandolo al mondo degli adulti, durante il viaggio a Sarajevo. E c’è Giuliano, il secondo marito di Gemma, colui che si è preso cura di Pietro senza esserne il padre biologico. Un’altra figura interessante del romanzo è Aska, una giovane bosniaca, che proprio come la Madonna, donerà a Gemma il figlio che lei non ha potuto dare alla luce, quel Pietro, senza padri, ma con troppi padri, che sembra assumere il ruolo di colui che riscatta, con la sua stessa esistenza, le colpe del mondo. Il principale difetto del libro è forse proprio il racconto della guerra, che non ha la forza di “arrivare” al cuore. Ed anche l’atto di denuncia verso la solidarietà “da salotto”, di chi, a pochi chilometri di distanza, ha permesso quel massacro, non è del tutto compiuto, perché chi ha in mano il libro non ne annusa le macerie, né scruta i volti, nè vive le emozioni, credendole proprie. Luigina Dinnella.
Margaret Mazzantini
Venuto al mondo
Arnoldo Mondadori Editore novembre 2008
529 pagine
20 euro

Sergio Leone, quando il cinema era grande

Sergio Leone: Quando il cinema era grande
Sergio Leone è scomparso venti anni fa, oggi avrebbe festeggiato ottant'anni, e forse lui stesso sarebbe sorpreso di come la sua fama e notorietà non conoscano barriere né geografiche, né generazionali. Chissà cosa penserebbe dei molti giovanissimi che citano a memoria interi dialoghi dei suoi film; delle migliaia di suoi fans che riversano su Facebook la loro passione per il suo cinema. Oggi Leone è un fenomeno culturale, probabilmente perché il suo cinema, “popolare”, ma nel senso più nobile del termine, è stato finalmente e definitivamente acclarato come “grande”. Oggi tutti, anche i più scettici hanno rivalutato il suo lavoro, al punto che istituzioni ed università continuano a studiarlo e ad omaggiarlo, come ha fatto la Casa del Cinema di Roma, un luogo dove il cinema è culto, è scuola, è ricordo. Dal 30 aprile al 3 maggio lo è stato ancor di più, perché in quelle sale si è materializzato il mito di Sergio Leone, attraverso le proiezioni dei suoi film ed il ricordo chi l’ha conosciuto ed amato. Leone è stato forse l’ultimo inventore d’immagini e di stile che la critica è stata “costretta” a scoprire e a valorizzare come merita. A vent’anni dalla sua morte, oggi Leone, è più vivo che mai, ed è considerato uno dei più importanti registi della storia del cinema, nonostante nella sua carriera, abbia diretto pochi film. Il suo modo di fare cinema è stato innovativo ed originale, ed il suo stile ha fatto scuola, influenzando molti autori, dai colleghi contemporanei fino alle ultimissime leve. Da Kubrick a Tarantino. Un cinema, il suo, fatto di primi piani, alla ricerca assoluta di un dettaglio, caratterizzato da sceneggiature violente ed al tempo stesso intrise di ironia, dal montaggio serrato, da sequenze con interminabili silenzi carichi di contenuto. Leone ha sempre raccontato storie personali ed intime di uomini, senza mai trascurare di inserire sullo sfondo la “grande storia”. Nei suoi film non ci sono eroi, forse perché ha voluto sottolineare come sia difficile individuare il confine tra il bene e il male, e come siano spesso dei punti di vista di chi osserva, e non dei valori assoluti. E’ lui il capostipite del genere “spaghetti-western”, un cult ormai per molte generazioni. Come non ricordare film come "Per un pugno di dollari", un successo strepitoso, uno dei massimi del cinema italiano, il "Il buono, il brutto, il cattivo", una pietra miliare del western italiano, "C'era una volta il West" capolavoro assoluto e cervellotico di montaggio. Ma è con “C’era una volta in America” che il maestro italiano firma la sua opera assoluta, quella che costituisce la sintesi più completa della sua arte. Tre ore e quaranta di cinema, con la C maiuscola, un opera epica, nella quale racconta la vita di due amici gangsters, interpretato da Robert De Niro e James Wood, considerato da molti uno dei più grandi film mai girati nella storia di quest’arte. Dai solari paesaggi western, Leone passa all’oscurità di New York, e ci consegna un appassionante e corale affresco di un’epopea. E’ un emozionante e commovente storia virile, fatta di amicizie e tradimenti, di passioni e violenze. Ma “C’era una volta in America” è anche una saga romantica, vista dagli occhi di un italiano che non ha mai smesso di pensare all’America come al paese dei sogni, nonostante tutte le sue contraddizioni. E’ l’ultimo film di Leone, è di fatto diventa il suo nostalgico e malinconico commiato. Favolose le musiche di Ennio Morricone, indimenticabile il sorriso finale di De Niro che rimarrà una delle immagini cinematografiche più intense. Per Clint Eastwood Leone era grande perché non aveva paura di fare qualcosa di nuovo. Per Claudia Cardinale il cinema è proprio lui, per come amava questa meravigliosa finzione in tutti i suoi aspetti, dagli attori, al prodotto finito fino alla vita di set. E’ stato uno dei pochi registi capace di portare al cinema tutti, dagli adolescenti agli adulti, dagli intellettuali agli analfabeti. Siamo in molti a rimpiangere che la morte ce l’abbia strappato prima che potesse regalarci un’altra opera, che si annunciava grandiosa, un film, che non ha fatto in tempo a girare, sull’assedio tedesco di Leningrado. Luigina Dinnella

De André, la fierezza di essere contro

Fabrizio De Andrè: la fierezza di essere contro
Fabrizio De André ci ha lasciati dieci anni fa in modo discreto, come discreto era il suo sorriso. Non altrettanto può dirsi della sua opera, che invece è sempre stata “invasiva” e “corrosiva”. Con De André è scomparso un amico che ha accompagnato le nostre riflessioni, che ci ha regalato preziosi momenti di poesia. Ma la sua morte ha lasciato orfani, soprattutto, quanti continuano a volere un’Italia contraria al conformismo, perché la sua è stata, e continua ad essere, una voce libera ed anarchica, se non altro per il coraggio e la coerenza d'aver scelto di sottolineare i tratti nobili degli sconfitti, e di averli affrancati dai ghetti cui spesso sono destinati dai più. Nel decennale della sua scomparsa, saranno molte le manifestazioni dedicate al suo ricordo. L’evento più emozionante sarà forse la serata speciale che la trasmissione televisiva, condotta da Fabio Fazio, “Che tempo che fa”, gli dedicherà l’11 gennaio. Speciale, perché moltissime radio si collegheranno in diretta con la trasmissione, e quindi ci sarà un momento in cui su tutte le frequenze radio, contemporaneamente, si ascolterà una canzone di Faber, è così che lo chiamano gli intimi. All’Auditorium di Roma, Ernesto Assante e Gino Castaldo, noti critici musicali, dedicheranno il 12 gennaio, una serata alla musica, ai pensieri, al ricchissimo lavoro di De Andrè, e ripercorreranno le tappe del suo percorso artistico nella canzone d’autore e nella poesia; una poesia semplice ed essenziale, in grado di raggiungere tutti. Un viaggio, quello di Fabrizio De Andrè, cominciato negli anni Sessanta e giunto fino agli anni Novanta. Un cammino che ebbe inizio dalla Via del campo, prolungamento del famoso carrugio genovese di Via Pré, strada tanto proibita di giorno, quanto ambita e frequentata di notte. È in quel ghetto di umanità respinta, ma segretamente bramata, che hanno preso corpo le sue ispirazioni, è lì che è nata la sua antologia di vinti, la cui essenza di persone contava per De Andrè, più delle loro azioni e del loro passato. Ad accompagnare Assante e Castaldo saranno due “grandi” della storia della musica italiana, Nicola Piovani e Mauro Pagani. Entrambi, compagni di lavoro e di vita del cantautore genovese, due collaboratori preziosi che hanno arricchito, con la loro genialità, l’opera di De Andrè. Naturalmente si canteranno le sue canzoni, tra le quali una bellissima versione del brano “Ho visto Nina volare”, arricchito dalle voce stessa di Fabrizio De Andrè. Non mancheranno le piazze e i molti luoghi, dove, come ormai avviene da 10 anni, molti giovani, senza dirsi niente, si radunano con le chitarre per cantare il meraviglioso affresco umano di chi, per usare le parole di De Andrè, “ha perso la strada”, ma che grazie a lui, ha acquistato dignità di esistere. Luigina Dinnella.

L'etica del buon giornalismo

L’etica del buon giornalismo
Il grado di maturità e democrazia di un popolo lo si valuta anche dal tipo di informazione di cui dispone. In un Paese come il nostro, dove la contiguità del potere politico con il giornalismo è forte; dove si viola con eccessiva leggerezza la privacy, sbattendo spesso il mostro in prima pagina senza aver fatto i dovuti accertamenti; dove ci sono molti commentatori e pochi reporter; dove i fatti stanno sparendo dalle pagine dei quotidiani; dove troppo spesso i giornalisti sono gli ospiti fissi di una cerimonia chiamata conferenza stampa; dove vige solo la finalità commerciale, che induce a trattare il giornale come una merce qualsiasi, e si sa, la logica commerciale, non va proprio di pari passi con l’etica, non può esserci un “grande giornalismo”. Tutto questo è analizzato in "Cattive notizie - Dell’etica del buon giornalismo e dei danni da malainformazione”, un libro di Vittorio Roidi, cronista prima per il Messaggero, poi per la Rai, e dal 2001 al 2007 segretario dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Oggi insegna alla scuola di giornalismo di Urbino e tiene un corso di etica e deontologia professionale alla Sapienza. Con questo libro Roidi tenta di riportare l'etica di questa professione al centro del dibattito sulla crisi della stampa. La sua analisi comincia, ovviamente, dalla figura del giornalista, dalla funzione che essa riveste nella società e dalla grande responsabilità che gli viene delegata della collettività. “Cattive notizie” non è un manuale per aspiranti giornalisti, ma un testo che affronta gli aspetti più delicati di questa professione. E’ la riflessione su un mestiere che troppe volte rischia di cadere preda della cattiva informazione. E’ un libro che parla di cattivo giornalismo, che tenta di identificarlo e di indagarne le cause, che per Roidi, risiedono nella superficialità, nella partigianeria, nella faziosità e nella subalternità ai poteri forti. Per Roidi, principi quali la libertà di stampa, privacy, deontologia professionale, obiettività, limiti della satira, sono un patrimonio di regole indispensabili, ma troppo spesso disattese e, quel che è più grave, non sempre in buona fede. Roidi, in questo suo libro non è tenero con i colleghi, e lascia trasparire la sua ammirazione per lo stile e la professionalità dell’informazione anglosassone. Le leggi sulla stampa, i codici deontologici, le Authority, gli Ordini professionali, afferma Roidi, possono aiutare e garantire il giornalista nello svolgimento del suo lavoro, ma nessuna carta sarà mai sufficiente a “fornirgli” l'indipendenza, se non entreranno in gioco la sua coscienza e il suo spirito libero, e per rafforzarli, afferma Roidi, bisogna tornare a considerare il giornalismo come attività al servizio della comunità dei cittadini, responsabilizzare e rendere autonomo chi fa questo mestiere, e soprattutto far capire che non basta parlare ad un microfono per essere giornalisti. Un altro difetto endemico della nostra stampa, per l’autore, è la tendenza a fare battaglie politiche che spesso hanno poco a che vedere con il servizio al cittadino. Oggi che i mezzi di comunicazione sono tanti, deve esistere una sola etica, che è quella di cercare la verità. E’ questa la prima regola, dice Roidi, affinché il giornalismo possa tornare ad essere uno strumento di democrazia. Per Roidi, il tanto decantato avvento di Internet non ha migliorato le cose, anzi, chiunque oggi smanettando davanti ad un computer può definirsi giornalista. Oggi più che mai, il diritto all'informazione deve tornare ad essere, non un privilegio del giornalista, ma una componente della libertà del cittadino, anzi una garanzia della democraticità del sistema, e perché ciò corrisponda accada, occorre che il giornalismo sia scrupoloso, corretto e rigoroso, come scrive Stefano Rodotà nella prefazione a questo libro. Luigina Dinnella

Cattive Notizie – dell’etica del buon giornalismo e dei danni da malainformazione
Vittorio Roidi
Prezzo 18,00 euro
Pagine 269
Editore Centro doc. Giornalistica
2008

Non è un paese per giudici

Non è un Paese per giudici

Superare un concorso in magistratura, si sa, non è impresa semplice; tanto studio e molti sacrifici, ma per chi sogna di indossare la toga, non si tratta di rinunce, ma di un forte stimolo a far parte di una categoria, che avrà pure i suoi eccessi nel delirio di onnipotenza che a volte genera, ma è pur sempre una delle più rispettabili ed ambite. La toga non è un abito qualsiasi, sta bene solo indosso a chi ha le spalle dritte e la testa alta. Purtroppo però, sono in molti quelli che per averla indossata, forse troppo bene, se la sono ritrovata appoggiata sulla propria bara, insieme al tricolore. La toga è un segno di fedeltà alla legge, che troppe volte è stata macchiata dal sangue. In un Paese in crisi, non solo economica, ma di coraggio, Paride Leporace, giornalista calabrese e direttore del “Il Quotidiano della Basilicata”, fa il suo esordio in libreria, con “Toghe rosso sangue”, sottotitolato “La vita e la morte dei magistrati italiani assassinati nel nome della giustizia”. L’intento principale del libro è quello di restituire alla memoria collettiva i nomi e le storie dei 25 giudici assassinati in Italia. Il merito di Leporace è di non aver voluto suscitare la troppo facile pietas umana del dopo. Non c’è retorica nelle sue pagine, ma solo il “senso del dovere” di un cittadino che ha ben chiaro in mente quale sia lo scopo della sua professione; di chi sa che il mestiere di giornalista non si esaurisce nel racconto dei fatti, ma nel dovere di stimolare, attraverso il ricordo, quel senso civico, che purtroppo è un valore in caduta libera, ed appartiene sempre a meno persone. Leporace ricostruisce il contesto storico e sociale nel quale sono maturati questi omicidi, attraverso non solo la cronaca dei giornali del tempo, ma soprattutto raccogliendo le testimonianze dei parenti, degli amici, e a volte anche di coloro la cui mano ha premuto il grilletto. L’obiettivo di Leporace non era quello di farne dei santi, o degli eroi, ma quello di salvare, chi è stato costretto a dare la vita “nell’esercizio delle sue funzioni”, quantomeno dalla spietata condanna dell’oblio. Leporace utilizzando fonti rigorose e aneddoti singolari, ha analizzando il come, il quando ed il perché delle loro morti, e non ha mai trascurato di raccontarci anche chi erano e come vissero gli uomini, prima dei magistrati. Sono tutti uomini, eccetto una donna, Francesca Morvillo, magistrato e moglie discreta di Giovanni Falcone, tutti con l'assoluta ed a volte, incosciente coerenza, di chi sta servendo lo Stato troppo in fondo, tutti uccisi fra il 1969 e il 1995. Sono 25 vite umane sacrificate in nome di oscuri disegni eversivi, i cui nomi, se si escludono alcune eccezioni, come Falcone e Borsellino, sono sconosciuti. Leporace compone con le 25 biografie, un mosaico, e lo inserisce nel più ampio contesto di trent'anni di storia italica. Apparentemente sembrano omicidi diversi, eseguiti da uomini ed associazioni diverse, ma a lettura ultimata, si comprende che il movente è stato sempre lo stesso: eliminati perché scomodi, perché desiderosi di uno Stato più pulito e sano, perché portatori di verità che potevano davvero cambiare le sorti di questo Paese. Il libro, si legge con un pizzico di apprensione, benché il finale sia noto, si ha quasi la sensazione di sperare che non sia così. Quella di Leporace è davvero un'opera educativa ed appassionante che colma un ingiusto vuoto di conoscenza. Luigina Dinnella.

Toghe rosso sangue La vita e la morte dei magistrati italiani assassinati nel nome della giustiziaParide LeporaceGennaio 2009
Newton Compton EdizioniEuro 12,90
Pag. 314

Intervista a Luca Argentero

Luca Argentero: glamour e credibile
Il Grande Fratello è un’esperienza che appartiene ad un’altra vita. Luca Argentero è, in questo momento, l’attore più inaspettatamente quotato. Eh sì, perché chi avrebbe scommesso su un reduce della casa più spiata d’Italia?! Ma lui, dalla televisione commerciale, è riuscito ad affrancarsene in pieno. Classe 1978, una laurea in Economia e Commercio alla Bocconi, un debutto nella serie Tv Carabinieri. Nel 2006 viene scelto da Ferzan Ozpetek per vestire i panni, non facili, di un omosessuale, e lui saprà indossarli con molta grazia, nel film Saturno contro. E’ il suo salto di qualità. Da allora, passa di film in film da A casa nostra di Francesca Comencini, a Lezioni di cioccolato di Cuppellini, a Solo un padre di Licini. Nel 2009, curiosamente va verso un nuovo ruolo omosessuale in Diverso da chi? E sempre nel 2009, è protagonista del film di Placido Il Grande sogno, e ha già all’attivo una nomination ai
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David di Donatello 2009 come miglior attore. Luca è disponibile ed entusiasta per il suo ingresso a pieno regime nel mondo del cinema.
Quanto ha pagato Ozpetek per averla sdoganata?
Lo ringrazio infinitamente ogni volta che lo incontro! E’ una persona che sento spesso, ed è un ottimo consigliere. E’ a lui che mi sono rivolto quando ho avuto dei dubbi.
Il suo ultimo film è diretto da Michele Placido. Lui è polemico, duro, rissoso, lei è tranquillo e pacato. Questa differenza caratteriale, almeno apparente, le ha creato problemi?
Auguro a tutti quelli che fanno il mio lavoro di avere la fortuna di lavorare con Placido. È stata una delle esperienze più educative, formative ed interessanti della mia vita. Placido è una vera forza. Ognuno ha il suo carattere ed il suo modo di porsi. Pochi però hanno la sua solidità di pensiero. Se uno ha delle idee, ed oggi non è così scontato, è giusto che le difenda.
Un sogno della tua vita?
In questo momento, visto che sono un neo sposo, mi piacerebbe vivere l’attesa fuori dalla sala parto. Davvero non vedo l’ora!
Con quale regista vorresti lavorare?
Non penso ad un regista in particolare, ma so che vorrei interpretare un super eroe, mi piacerebbe avere un super potere di qualsiasi tipo, anche piccolissimo. Finora sono soddisfatto perché ho potuto cimentarmi con ruoli sempre molto diversi fra loro. Penso sia l’unico modo per crescere e per migliorarsi. Qualsiasi regista mi offra la possibilità di cambiare realmente, rispetto a quello che ho fatto prima, è ben accetto.
Nei tuoi film hai dovuto girare delle scene di grande intimità… anche con uomini. Imbarazzo?
Le scene intime sono imbarazzanti in generale. Condividerle poi, anche se per finta, con altre 20 persone della troupe, è uno scoglio sempre, sia che si tratti di un uomo o di una donna. Il mio caso è certamente un po’ buffo davvero, perché mi sono trovato quasi lo stesso numero di volte con uomini e con donne… Diciamo che ho pensato al risultato che dovevo ottenere.
Finora hai lavorato con grandi nomi del giovane cinema italiano, e con tutti sembri molto affiatato.
E’ fortuna. Non puoi farti diventare simpatica una persona che non trovi tale. A me è andata bene, perché con tutti, c’è stata una forte empatia, è questo credo, abbia giovato ai film. Soprattutto nelle commedie è essenziale che tu per primo ti diverta, se vuoi che anche il pubblico lo faccia. Credo che la vera forza di questi film sia nei dialoghi, nella forza delle sceneggiature, nella totale assenza di volgarità. Questo è alla base di un cinema buono, poi viene tutto il resto.
I film che hai interpretato hanno una nota comune, sono commedie che trattano temi sociali molto delicati.
E’ una caratteristica delle commedie scritte da Fabio Bonifaci quella di prendere un tema sociale importante, su cui bisogna fare attenzione a scherzare, e trattarlo con delicatezza, riuscendo a ridere non di quella cosa lì, ma con quella cosa lì. Non è facile, mantenere un livello di commedia che sia equilibrato rispetto al tema che si sta trattando, così come non è facile ottenere una misura giusta quando interpreti personaggi come l’omosessuale, che presta il fianco molto facilmente a diventare una macchietta, se non sei attento alla misura in cui lo rappresenti.
Sei sul set dell’ultimo film di Julia Roberts, per la tua prima esperienza con una majors americana. Sembra che il 2009 sia il tuo anno…E’ un bellissimo momento, ma c’è anche un’ansia tremenda. Non ci dormo la notte! Anche se buona parte di questa preoccupazione me la mettono gli altri. Luigina Dinnella

Sturzo-Salvemini carteggio, di Giovanni Grasso

Antifascismo bianco

Il ringraziamento maggiore che dobbiamo rivolgere al giornalista Giovanni Grasso per la pubblicazione di questo suo libro, “Luigi Sturzo Gaetano Salvemini Carteggio 1925-1957” è quello di averci riportato, idealmente, ai tempi di un dibattito politico di altissimo livello, e a due straordinarie personalità, quella di Don Luigi Sturzo e Gaetano Salvemini, di cui nei tempi che viviamo se ne sente, stridente, il rimpianto. La stessa nostalgia che proviamo per quel senso di riflessione critica che ha caratterizzato un momento storico, probabilmente irripetibile, della società culturale italiana di quegli anni. Grasso ci racconta come, quello fra Salvemini e Sturzo, fu un confronto a volte aspro ma sempre leale e rispettoso dell’altrui pensiero, un dialogo che non si incrinò mai, nonostante il loro diverso modo di essere e di pensare. Anzi, sottolinea come la forza della loro dialettica risiedesse proprio nelle loro “diversità”, che non impedì loro di essere amici per oltre trent'anni, nonostante i dissensi ed le dure polemiche sul rapporto tra Chiesa e Democrazia. Salvemini, celebre storico, fu un meridionalista, socialista nei fini di giustizia, e liberale nel metodo usato, contrario ad ogni privilegio. Fu un uomo passionale, polemico, azionista, laico ed anticlericale, condusse in tutta la sua vita un'intensa attività volta alla formazione di un'opinione pubblica laica e progressista, e fu fra i precursori del liberalsocialismo. Don Luigi Sturzo era un sacerdote atipico, saldamente piantato in politica, fondatore del Partito Popolare Italiano, democratico e liberale, ed aveva un rapporto difficile con le autorità ecclesiali, al punto che fu considerato un "sinistro prete", tanto pericoloso da essere esiliato. Oggi lo definiremmo probabilmente un "catto-comunista". Entrambi denunciarono il malcostume politico e le gravi responsabilità della classe dirigente dell’epoca, ma quello che li accomunò più di ogni altra cosa fu il loro antifascismo, che costò ad entrambi l’esilio. Mentre gran parte del mondo accademico italiano s'inchinò al regime, il professor Salvemini, fu arrestato dalla polizia fascista nel 1925, e dopo esser stato processato scelse la via dell'esilio e si rifugiò dapprima in Francia, dove insieme ai fratelli Rosselli nel 1929 fu tra i fondatori del movimento “Giustizia e Libertà”, poi negli Stati Uniti. Luigi Sturzo decise, non senza forti sollecitazioni, di lasciare gli incarichi nel partito e si rifugiò dal 1924 al 1940, prima a Londra, a Parigi e poi a New York. A Londra animò diversi gruppi politici di italiani fuoriusciti e di cattolici europei. L’opera di Grasso, preceduta da un’introduzione ricca, frutto di una ricerca di archivio molto attenta e scrupolosa, ci racconta, utilizzando la prospettiva particolare delle lettere che i due si spedirono in oltre 30 anni, un importante pezzo di storia italiana, ed attraverso il racconto di queste due personalità, fa chiarezza sui rapporti tra antifascismo cattolico e antifascismo laico. Dalle lettere, raccolte da Grasso, emerge evidente, l'amarezza per la comune sconfitta politica, ma anche il loro pensiero su un domani incerto e difficile da interpretare. Grasso ci spiega come i due avevano in comune, oltre all’origine meridionale, l’amore per la libertà, e ci testimonia come la loro amicizia si sviluppò forte, nonostante fosse attraversata da controversie non facili da superare. Da questo animato dialogo, raccolto da Grasso, e pubblicato da Rubbettino Edizioni, emergono due figure esemplari e due eminenti personalità. Si tratta di ben 150 lettere, molte delle quali inedite, delle quali è interessante sottolineare alcuni passaggi, perché ci aiutano a capire i toni con cui “se le davano”, nulla di paragonabile alle bagarre cui assistiamo quotidianamente. Uno è quello in cui Salvemini insiste nel segnalare a Sturzo quali fossero, a suo giudizio, le grandi ed innegabili responsabilità del Papa Pio XI, che di fatto aveva autorizzato l'impresa in Abissinia: «Quando venne la vittoria in Africa, Pio XI ne gioì pubblicamente. Questa è la verità storica», dice Salvemini, «e un galantuomo come Lei non può mettersi contro la verità». Don Sturzo impetuoso, sempre si fa per dire, replica con tenacia, ringraziandolo per la critica, pur ritenendola infondata: «Lei s' immagina un Vaticano inesistente. Si vede bene che non è stato mai in contatto con gli abitanti di là della porta di bronzo». Ma né l’antifascismo laico, né quello cattolico riuscirono nell’intento di fermarne l’espansione, perché non seppero rimanere uniti nella lotta. Tra il 1925 e il 1929 la vicinanza tra Sturzo e Salvemini sembrava potesse tradursi in una saldatura tra antifascismo laico e antifascismo cattolico, ma il concordato del 1929 tra la Santa Sede e lo Stato italiano interruppe questo tentativo, ed anzi, il fatto che Don Sturzo non si fosse pronunciato contro il concordato, convinse Salvemini della inaffidabilità antifascista del cattolicesimo democratico, anzi lo ritenne incapace di svincolarsi dall’obbedienza gerarchica della Chiesa. A quel punto nessuna azione politica comune era più possibile, e con queste parole lo comunicò a Don Sturzo nel 1941: “non c’è nulla, assolutamente nulla, da aspettarsi nella lotta per la libertà e per la democrazia non appena il Vaticano scenda in campo per ordinare ad alcuni il silenzio e l’abbandono della lotta”. Addirittura, per Salvemini, esisteva una incompatibilità filosofica tra cattolicesimo e democrazia, e lo scrisse a Don Sturzo: “Io sono sempre stato convinto che Ella per le sue dottrine politiche e sociali è un giansenista. Ma questa dottrina giansenista è agli antipodi della dottrina cattolica. Io quando leggo alcune pagine dei suoi scritti dico fra me e me: ‘Io potrei sottoscrivere queste pagine. Ma non le sottoscriverebbe Pio XI’. Questo è il punto”. Dal canto suo, Sturzo osservava: “se è vera l’assunta incompatibilità della Chiesa cattolica con la Democrazia moderna, tutto si spiega con due e due fanno quattro; e se non è vera, come io penso, allora l’affare del Fascismo va rimesso in un quadro episodiale, come quello di ogni altra fase storica che passa la Chiesa nei suoi contatti con la società politica”. Per Sturzo il concordato non era un atto di “collaborazione politica” della Chiesa con il regime, ma piuttosto il tentativo di “normalizzare il Fascismo” influendo su di esso moralmente, conclusosi con un fallimento. Nelle parole di Sturzo è evidente la convinzione del “cristianesimo morale” di Salvemini e nel dicembre 1941 definì il suo anticlericalismo come “una lieve infiammazione temporanea, che con il suo buon senso farà presto sparire dalla mente, il cuore suo ne è intatto: ne sono sicuro!”.
Da questo carteggio emerge chiaramente che Sturzo non smise mai di cercare di “cristianizzare” l’anticlericalismo di Salvemini, il quale, dal canto suo, confessava a Sturzo nel febbraio 1942, che “essere anticlericale non significa essere anticristiano, ma essere più cristiano di cardinali, vescovi e papi”. In questa dialettica Grasso, prende posizione, e fra le righe si legge una difesa di Don Sturzo, quando fa intendere che non è vero che fece poco per contrastare i filo fascisti del suo partito, anzi sottolinea l’autore, non bisogna dimenticare, che in quel periodo, su pressioni della Segreteria di Stato Vaticana e dello stesso Pio XI, Sturzo fu fatto dimettere da segretario del Partito Popolare, e inviato in esilio, dove scrisse, sempre a parere dell’autore, parole molto chiare sulle compromissioni tra Chiesa e fascismo. E’ evidente, che alcuni atteggiamenti definiti di “reticenza”, non possono che essere legati al fatto che Don Luigi era un sacerdote, e non poteva spingersi oltre, non poteva abiurare la Chiesa, che invece amò sempre, nonostante i torti da essa ricevuti. Luigina Dinnella
Luigi Sturzo
Gaetano Salvemini
Carteggio (1925-1957)
A cura e con l’introduzione di Giovanni Grasso
Rubettino
A Cura dell’Istituto Luigi Sturzo
144 pagine
20 euro

intervista a carlo verdone

Un malin-comico autore
Inqualificabile proprio per la sua unicità, Carlo Verdone è un regista ed un attore il cui umorismo è ampiamente velato di malinconia. Il suo repertorio di tipizzazioni è grottesco, ma mai volgare. I suoi personaggi sono il frutto di una grande capacità di osservazione comportamentale, degna di un antropologo raffinatissimo.
La incontriamo in occasione della proiezione di “Compagni di Scuola”, un film di oltre 20 anni fa, ma ancora molto attuale, grazie al tema della nostalgia e del ritrovarsi, così diffuso in tempi di Facebook.
Il suo film preannunciava una tendenza molto in voga oggi. Tutti sembra vogliano salvare la memoria. Ha precorso i tempi?
Trovo sia davvero patetico il tentativo di tornare ad essere quello che eravamo. Due anni prima di fare questo film ci fu una cena della mia classe del liceo, ci presentammo in 12 su 32, quello che mi rimase impresso di quella serata fu la grande tristezza. Mi ripromisi che non avrei partecipato mai più ad una cosa del genere. “Compagni di Scuola”, è uno dei miei figli più cari, è un film molto sincero che non strizza l’occhio al botteghino, anzi, Cecchi Gori mi buttò il copione appresso! È stato uno dei momenti più difficili della mia carriera, i critici dicevano: l’attore comico che si mette a fare l’autore! Volli farlo perché era arrivato il momento di tentare il salto di qualità, mi mancava la regia corale, e volevo mettermi alla prova raccontando diciotto tipologie di uomini e donne.
Lei ha raccontato i vizi e le virtù dell’italiano medio, ma qual è il vizio italico che più disprezza, e qual è la nostra migliore virtù?
Il non rispetto delle regole mi dà molto fastidio, per noi italiani è una cosa atavica. Fra le virtù direi la nostra genialità in extremis, invece dovremmo usarla in maniera più costruttiva. Anche l’ironia è fra le nostre doti, ma troppo spesso travalichiamo, come con la satira, che è giusta, ma quando ce n’è troppa l’effetto è esattamente contrario, non si ride più.
Ma in assoluto gli italiani le piacciono?
Presi singolarmente sì. Tutti insieme siamo sono come la Curva di uno stadio, quando la vedi da lontano ti fa paura, scappi, e dici: mamma mia!
Lei passa per essere un depresso e un ipocondriaco. Quanto c’è di vero in queste voci?
Io sono un malinconico. Anche se un medico di famiglia mi disse: ricordati Carlo che tu hai un fondo di depressione ma ci devi convivere, accetta questa piccola ansia e vai avanti… poi però mi prescrisse duemila medicine! Oggi me ne sono liberato abbastanza, le prendo solo per dormire, se no veramente non dormirei mai.
Si sente un “fannullone”?
Che Brunetta non ami molto la cultura l’abbiamo capito, ed ha anche una visione sprezzante del mondo dello spettacolo. E’ vero che il Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo ) ha dato soldi anche a chi non li meritava, è vero che ci sono stati degli errori di valutazione, e delle raccomandazioni. Basterebbe rimettere le cose a posto in maniera seria. Se si abbandona il FUS non ci sarà un ricambio generazionale. Non ci sono molti produttori, in un momento come questo, con la capacità economica di far esordire uno nuovo. Se si taglia sarà sempre il vecchio ad avanzare.
Che ci dice di Sordi, al quale viene spesso accostato?
Non gli assomiglio affatto. Sordi è stato una maschera come Balanzone, Pulcinella e Rugantino, e le maschere non hanno eredi. Poi Sordi ha raccontato periodi importanti della storia italiana, la guerra, la ricostruzione, il boom economico, io mi devo barcamenare in film più intimi, con temi più piccoli, non meno importanti, ma meno cinematografici. Caratterialmente poi siamo completamente diversi. Sordi era simpaticamente cattivo, e piuttosto cinico. Io ho avuto l’onore di frequentarlo, e vi assicuro che era due persone distinte. Fuori era un sorriso per tutti, dentro casa era cupo. Il Sordi che piace a me è quello in bianco e nero, di “Mamma mia che impressione”, “Lo sceicco bianco” “I Vitelloni”; era l’attore più avanguardista che abbia mai visto, mi piaceva quando non aveva una impostazione, perché era spontaneo, ed aveva una rapidità di esecuzione delle battute formidabile. È un grande privilegio aver lavorato con lui e se faccio questo lavoro lo devo anche al fatto che mi ha fatto divertire nei cine club quando lo andavo a vedere. Io l’ho avuto in “Troppo forte”, e devo dire lì non mi è piaciuto perché imitava Oliver Hardy, purtroppo. In quel film ha accentuato i toni, forse avrà avuto paura di non far ridere abbastanza, invece era un po’ antiquato, a parer mio. Luigina Dinnella

Giovanni Allevi: musicista filosofo

Il merito di Giovanni Allevi è di aver reso la musica classica contemporanea meno snob e più popolare, il suo successo dimostra che ha saputo trovare la chiave giusta per comunicarla al grande pubblico. È un po’ clown, ma decisamente simpatico. Lo incontriamo in occasione dell’uscita del suo ultimo lavoro: Allevi & All Star Orchestra – Arena di Verona. Cominciamo la chiacchierata proprio da lì.
A settembre a Verona è stato un tripudio. Raccontaci le emozioni che hai provato…
Non sono un auto celebrativo, ma in effetti è stato un successo, anche se lo ricordo come uno dei concerti più stressanti che mi sia mai capitato di affrontare. Dirigere 87 elementi provenienti dalla più importanti filarmoniche del mondo, davanti a un pubblico di quasi 12 mila persone, mi ha messo addosso una pressione psicologica enorme. Il primo giorno di prove, mi sono trovato di fronte ai professori di orchestra che mi guardavano con gli occhi sbarrati, e ai loro colleghi italiani dicevano: ma è questo qua?! Probabilmente il mio aspetto e la mia età li convincevano poco. Il successo è segno che ci siamo piaciuti, e abbiamo lavorato bene.
Prevedi di dirigere la lirica in futuro?
Non si sa mai nella vita che cosa può accadere in futuro.
Ho toccato con mano il sommo piacere di essere un compositore che dirige la propria musica con l’orchestra; oggi per me è il massimo della gioia possibile. Affidarmi al repertorio lirico significherebbe uscire da questo percorso che ho intrapreso.
Da un punto di vista compositivo, parti dall’armonia, dalla melodia, o è solo istinto?
Io sono uno scienziato, sono rigorosissimo. In genere ho una melodia in testa e me la ripeto fino ad avere problemi di relazione sociale… dopodiché comincio a scrivere. Da ragazzino, quando componevo musica al pianoforte, scrivevo brani tutti uguali, perché la manualità mi condizionava, le dita andavano sempre sugli stessi accordi, sulle stesse melodie. Da quando mi sono affrancato dal pianoforte, i brani hanno iniziato differenziarsi fra di loro, e ognuno è diventato un mondo a se.
Tu e Ludovico Einaudi siete i pianisti e compositori più apprezzati dal pubblico italiano. Duetterete in futuro?
Personalmente non credo molto alla collaborazione musicale. Quando i miei miti musicali l’hanno fatto, da fan l’ho vissuto come un arrendersi. Però nella vita tutto è possibile.
Le critiche che Uto Ughi le ha rivolto erano snobismo di casta o che cosa?
Certo che è snobismo di casta, ovviamente. Ricevere degli attacchi così violenti non è bello, non fa bene a nessuno. Però, studiando la storia dei grandi compositori del passato, mi sono accorto che tutti coloro che hanno veramente creato un cambiamento profondo nella storia della musica hanno subito l’attacco violento di una parte dell’accademismo, che invece tende alla conservazione, a fare in modo che nulla cambi, che tutto resti immobile. In passato Puccini è stato accusato di essere un personaggio mediatico; lo stesso Mozart, quando ha composto la sua sinfonia 40, venne giudicato eccessivamente popolare. Beh, mi sono sentito in buona compagnia. La reazione del popolo degli Alleviani è stata grande, non ci sono state cadute di tono; hanno mostrato classe ed eleganza. Solo una bambina mi ha scritto: “spero che quest’anno la Befana porti al maestro Uto Ughi il carbone!”
Che consiglio dai ai giovani che si avvicinano al pianoforte?
Di non scoraggiarsi mai, di avere molta pazienza, ma soprattutto di essere molto indulgenti con se stessi. Devono pensare che al termine degli studi potranno suonare ciò che amano, ed è allora, quando non hai un professore che ti giudica, che il rapporto con la musica diventa straordinario e bellissimo.
Luigina Dinnella

Dedicato a zia Angelina

LA SECONDA VOLTA
DELLA VEDOVA SAPONARA
di PARIDE LEPORACE
segue dalla prima
Angela invece non era mai apparsa in televisione
come vedova di vittima del terrorismo.
Forse i programmisti ricordano solo quello
che accadde nelle metropoli. O forse per essere
familiare visibile devi saper stare nella
società dello spettacolo. Forse più che memoria
si cerca chi sa spettacolarizzare il dolore.
Ho appreso della morte di Angela Zagaria
per canali privati. Me lo ha comunicato la nipote
Luigina Dinnella, collega giornalista
cui ho chiesto una testimonianza che pubblico
di seguito: «Mia zia il 7 novembre è morta
per la seconda volta perché la sua vita era
stata spezzata l'8 giugno del 1976, quando
un commando delle Brigate Rosse uccise
suo marito, il padre dei suoi figli, Giovanni
Saponara, un maresciallo della Polizia. Zia
Angelina è stata una donna coraggiosa, ed
ha dimostrato tutta la sua forza, rimanendo
a Genova con i suoi figli, Gianluigi e Giuseppe,
di 11 e 9 anni, anche dopo la tragedia che
l’aveva colpita. Sarebbe stato più semplice
tornare dalla sua famiglia a Salandra, dove,
forse, il suo dolore sarebbe stato in qualche
modo lenito dalla loro vicinanza, ma ha preferito
rimanere a Genova, da sola, per dare
un futuro ai suoi figli, ai quali era venuto a
mancare, in maniera così atroce, il sostegno
e l’amore di un padre speciale, perché zio
Giovanni era un uomo speciale, un uomo che
aveva scelto di arruolarsi in Polizia per sfuggire
ad un destino, quello di chi lavora la terra,
che sembrava assai più crudele. Amava il
suo lavoro, amava la sua donna, che aveva
voluto con forza, e lei lo aveva ricambiato in
modo assoluto. Abbiamo tutti ammirato ed
amato il fatto che per zia Angelina, zio Giovanni
era vivo in ogni momento; ogni scelta,
ogni decisione che prendeva era come se
l’avesse condivisa con lui. Era solita dire:
“Giovanni avrebbe fatto così”, “Giovanni
avrebbe detto questo”. Ora è con lui, e la serenità
che ho letto negli occhi dei miei cugini,
mi spinge a pensare che per loro la sua
morte ha un sapore atipico. Non è una perdita,
ma è come se fossero felici perché i loro genitori
sono tornati insieme, per sempre».
Ma questa storia ha anche un’altra piega.
Un giornalista di origine lucana, il bravo
Giovanni Fasanella da anni scrive libri dedicati
agli anni di piombo. Massimo Coco
all’epoca della strage aveva 16 anni, e dopo
trenta ha accettato di rispondere alle domande
di Giovanni Fasanella e Antonella
Grippo per il libro “I silenzi degli innocenti”,
raccolta di testimonianze dei familiari delle
vittime di tanti attentati terroristici, da piazza
Fontana in poi. Riportando, tra l'altro, un
ricordo della madre secondo cui l'allora giudice
istruttore Gian Carlo Caselli, che indagava
sull'omicidio del marito, andò a casa
sua e riportò nel verbale d'interrogatorio
una frase da lei mai detta; e lamentando di
non conoscere i nomi degli assassini, perché
«il processo è finito in farsa».
Giovanni Bianconi sul Corriere della Sera
ha raccontato che il giudice Caselli ha querelato
il figlio del giudice Coco. Luigina Dinella
ha letto la notizia insieme ai suoi due cugini,
orfani di Giovanni Saponara, ucciso insieme
al giudice Coco. Era con loro al funerale
della loro mamma, e potete immaginare
i commenti. La notizia li ha molto scossi, ed il
loro dolore amplificato. Non si finisce mai di
essere vittime.
Ti tolgono un padre a 7 e 11 anni, ti cambiano
la vita, e come se non bastasse continuano,
invece che a tutelarti, ad offenderti.
Fa pensare che un giudice come Caselli non
abbia trovato il tempo di riflettere che quella
querela non doveva presentarla. Abbiamo
voluto raccontarvi questa piccola dolorosa
storia italiana per dare memoria a due vittime
lucane e ai loro figlioli. Giovanni Saponara
e Angela Zagaria abbandonando Salandra
per andare a Genova inseguivano il sognodi
un futuro migliore. Un sogno che si è
trasformato in incubo.

Intervista a Roberto Vecchioni

14 Domenica 8 novembre 2009
di LUIGINA DINNELLA
L’intervista
Roberto Vecchioni racconta il cd “ In Cantus” La NORMALITÀ
della storia
“VECCHIONI è forse l'unico artista
italiano che può permettersi di vincere
il Festivalbar e di scrivere canzoni
raffinate, di riscrivere la storia
di Orfeo e Euridice, di citare Oscar
Wilde ed al tempo stesso di scherzare, cadere
di tono, frequentare la canzonetta
senza perdere lo spirito e la faccia”Questa
definizione di Ernesto Assante, noto critico
musicale, sintetizza la natura di questo
cantautore-professore la cui musica racconta
l'amore in forma lirica ma anche
ironica; nelle cui canzoni si trovano tracce
autobiografiche di sentimenti persi o
ritrovati, di occasioni non colte, di affetti
dimenticati, ma anche l'impegno politico
e sociale. Tutte emozioni autentiche raccontate
in una dimensione di sogno, di ricordo,
quasi di favola. Il nuovo album di
Roberto Vecchioni 'In Cantus', registrato
dal vivo nella piazza del Duomo di Spoleto,
è un coraggioso mix di sue celebri canzoni,
in versione orchestrale, e di arie classiche,
sulle quali il cantautore ha impresso
le sue parole. Generi diversi, uniti però
dalle stesse tematiche, come l'interrogarsi
sull'esistenza, sul divino e sull'amore
fra gli uomini.
Come è nata l'idea di In Cantus?
«Ho avuto voglia di cimentarmi in qualcosa
di diverso, pensando di dare parole a
pezzi immortali, senza distruggerli, senza
rovinarli, per far capire che Vivaldi, Rossini,
Puccini, hanno scritto arie che non hanno
tempo, e che non devono rimanere separate
in torri d'avorio. Ci ho provato, ed è stata
un'esperienza unica, bellissima. E' un disco
spartano nella sua semplicità, quasi
francescano. Ci sono cinque archi e un piano,
non c'è altro…non ci sono né batterie né
chitarre. E' un canto dell'uomo, con la sua
solitudine e le sue paure, la sua gioia e la
suafelicità, cheha una misura straordinaria
nel senso di chiedere, a qualcosa lassù,
perché non è tutta materia, uno straccio di
esempio che assomigli a un perdono o ad
un'accettazione. E' un canto di orgoglio di
se’ stessi, ma anche del piacere di ascoltare
una voce dentro che ci dice che non siamo
soli. In questo senso, il sogno credo che sia
la cosa più grande che ci accomuni alla
grandezza di un insperato ma possibile
Dio».
In questo disco sembra che lei si metta
in gioco con l'entusiasmo di un ragazzo;
assomiglia all'uomo che si gioca il cielo a
dadi.Maè ancheundisco nel quale si vede
la saggezza degli anni!
«E' un disco chemanda messaggi culturali
essenziali, che grazie alla forma artistica,
passano prima ed in maniera più incisiva.
Le mie canzoni spesso usano un linguaggio
ermetico, un po' surreale, questo
disco è più semplice. Non ci sonometafore
né allegorie. E' un disco positivo, realista,
che parla di amori normali e felici, di amori
distruttivi, di persone che si guardano e si
innamorano per la prima volta. Io non ho
mai scritto storie così “normali”, anche
questa è stata una sfida. Non c'è e non vuole
esserci un insegnamento,
ma soltanto un motivo di riflessione:
che siamo tutti
uguali in questa normalità e
tutti cerchiamo uno sfogo,
una luce».
Come si è orientato nella
scelta dei brani?
«Volevo parlare di Dio ed
ho scelto, fra le mie canzoni,
sia “Le Rose blu”, che “Viola d'inverno”; le
altre le ho scelte per fare una specie di intermezzo
da opera buffa, per far vedere come
con gli archi si può fare anche rock, e quindi
“Voglio una donna”, e “Milady”. Le arie
classiche le ho scelte fra le melodie che
amavo, e fra quelle la cui musica mi suggeriva
di parlare dell'uomo».
Lei èun autore, quanto snobismo c'è in
questa definizione?
«De Andrè ci lasciato una testimonianza
eccezionale, dicendo che bisogna accettare
il bello nella sua semplicità e nella sua complessità
comunque venga, basta che sia vero.
E io sono d'accordo con
lui. Ci sono tante schifezze
nella canzone cosiddetta intellettuale
e tanti orrori nelle
trasmissioni cosiddette intelligenti,
così come ci sono cose
belle nelle trasmissioni e nelle
canzoni popolari. Odio gli
snob e tutti coloro che si sentono
dei Re. L'importante è
comunicare. Grazie a questo disco ho avuto
il piacere immenso di lavorare con i più bravi
musicisti di musica sinfonica in circolazione,
erano di una umiltà pazzesca. Mi sono
detto: che bello sentire dei grandi musicisti
che hanno addirittura un senso di deferenza
verso qualcosa che stimano... a differenza
di quanti vanno in giro, e alla prima
canzone che cantano, si sentono degli
Dei!
Oggi è tutto così, il primo che ha un attimo
di ascolto, il primo che ha le basette più
lunghe o la gonna più corta pensa di aver
per forza diritto ad avere successo. Il successo
non è una cosa né di
quantità, né di qualità, ma
ha a che fare con la sensibilità.
Quando sono in concerto e
3000 persone mi parlano con
il loro silenzio, èunsuccesso
grande, non me ne frega
niente chenon siano 100 mila;
certo è bello anche quello,
non sono come la volpe e l'uva, però l'importante
è questa commistione, questo sentirsi
sulla stessa lunghezza d'onda, capire
quali sono i valori veri, perché è la verità il
senso fondamentale della ricerca che facciamo.
Detto ciò, penso comunque che abbiamo
la canzone d'autore più bella al mondo,
ma adoro la canzone popolare. Voglio
molto bene alla Pausini, ad Elisa, e penso
chenon ci sia bisogno di essere colti o stravaganti
per essere bravi».
Lei è sempre stato vicino ai giovani, da
insegnante e da cantautore.
In cosa li trova cambiati rispetto alla
sua generazione, e quale crede sia il male
di cui soffrono?
«Nella società in cui viviamo i più deboli, i
più insicuri e i più scoperti all'inganno sono
i ragazzi, perché subiscono nella loro
gioventù, nella loro ingenuità e nella loro
bontà, i valori assurdi che questo momento
storico e culturale ci offre.
La tv gli sbatte in faccia sentimenti retorici
e facili da accettare, che loro credono
veri, e invece sono delle mascherature. Io
sono triste per un sacco di ragazzi che non
sanno discriminare, e che si lasciano indurre
in continua tentazione, in continua
fregatura dalle sirene televisive, da quelle
del successo o della facilità.
E' un peccato enorme, perché noi in Italia
abbiamo ragazzi di grande intelligenza e
potenzialità. Dovremmo fare dei debiti per
aiutarli! Ci vorrebbe una scuola e un'educazione
che togliesse soldi a chi debiti crede di
non averne, ma ne ha molti, per aiutare l'Italia
ad essere quella dei giovani che credono
in qualche progetto, e credono anche
nella cultura, perché l'operazione più intelligente
che possa fare uno Stato non è quella
di dare fiducia a chi sicuramente lo può
rifondere, ma è quello di rischiare. Tutte le
nazioni civili rischiano.
Se non hai il coraggio di rischiare sui ragazzi
non sei una nazione, se spendi tutto
quello che hai per far vendere robicciatole,
non sei una nazione! Una vera nazione fa i
debiti, e pensa che fra 10 o 20 anni tutto
questo le ritornerà, perché crede nella propria
gioventù, e non c'è gioventù che non
meriti, e non c'è gioventù migliore di quella
italiana. Il male di cui soffrono i giovani
credo sia la paura del tempo morto, forse
perché nessuno gli ha insegnato a riempirlo
con pensieri personali, con l'immaginazione,
con i sogni.
Anche se credo che l'immaginazione
sia un dono, qualcosa
che forse non si può insegnare,
ma è quella che ci fa
sopravvivere, non dobbiamo
abortirla, ma considerarla
come una delle cose più importanti
della nostra vita,
perché ci stimola alla sfida, a
non essere sempre uguali, a
cercare sempre dei ruscelli diversi che ti
portino al fiume. Che poi è il vero senso della
vita, visto che di anni ce ne sono pochi.
Si deve evitare di fare sempre le stesse cose,
bisogna tentare di cambiare tutto, perché
vale sempre la pena di mettersi in discussione
».
«Oggi
è così: il primo che ha un attimo di ascolto
che ha le basette più lunghe o la gonna più corta
pensa di aver per forza diritto ad avere successo»
«Vivaldi e Rossini
hanno scritto arie
senza tempo»
«I ragazzi
hanno paura
del tempo morto»