venerdì 20 novembre 2009

La Piovra Rai

Gli sconvolgenti numeri della RAI
La Piova Rai, Sprechi. Vizi e privilegi della televisione di Stato, è l’ultimo libro-inchiesta di Denise Pardo, il cui scopo sembrerebbe quello di aprirci gli occhi su una delle più importanti aziende pubbliche italiane. Ne viene fuori la radiografia di una casta sovrabbondante, in cui le cariche, le seggiole e le poltrone sono decisamente sproporzionate rispetto alle effettive necessità dell’azienda. Il libro è un dettagliato elenco di cifre, numeri, e circostanze che dovrebbero provocare in ognuno di noi, quantomeno, un senso di disorientamento, invece, ahimè, come sempre più spesso avviene nel nostro Paese, di fronte alle denunce, documentate, di fatti “non del tutto cristallini”, si rimane forse delusi, ci si sente truffati, ma poi tutto svanisce, e si torna a pensare al nostro piccolo orticello personale. D’altronde, non c’è da meravigliarsi, visto che da più parti ci giunge la segnalazione che il nostro “senso morale”, è decisamente in ribasso, su tutti i fronti. Il libro della Pardo ci racconta avvenimenti e situazioni, che dovrebbero “scandalizzarci” e renderci promotori di una rivolta, invece dubitiamo che tutto ciò avverrà, perché l’abitudine a subire e la nostra mancata ribellione, sono divenuti i veri assi nella manica di chi gestisce la cosa pubblica. Non è un libro accattivante in senso stretto. Rimarrà deluso chi l’ha acquistato aspettandosi di trovarci aneddoti curiosi, e forse anche un po’ di gossip, di cui gli italiani sono ghiotti, e invece no, niente di tutto ciò, solo il racconto della moltiplicazioni di poltrone, di direzioni e di società; dei pezzi di palinsesto elargiti in cambio di voti, dei nullafacenti “forzati” ma profumatamente pagati con i nostri soldi, di assegni di “fine rapporto” milionari, di lotte fratricide e naturalmente di dipendenza dalla politica. Questo è il quadro, sconcertante, della RAI, televisione del servizio pubblico, una città nella città, che nel 2008, ha pagato lo stipendio a ben oltre 13 mila dipendenti, ai quali si sommano altri 43 mila collaboratori; pare che la dicitura dei loro contratti reciti: per carenza di organico! Ma c’è di più, nonostante il numero enorme di dipendenti, la RAI, sempre più spesso si avvale di collaboratori esterni e di appalti con altre società. Ne sono un esempio i famosi Format, le varie “Isole dei famosi” e perfino “Che tempo che fa…” . C’è da rimanere sbalorditi, e c’è da chiedersi, ma perché tutto ciò? Non ci sono già abbastanza persone valide, e capaci? Perché comprare, spendendo altri soldi pubblici, programmi prodotti da altri? Mah, a noi umani, normali, tutto ciò non appare chiaro. Uno dei capitoli più spietati del libro, è quello intitolato `Il sacro e noto teorema di Tabgà”, luogo dove, secondo i Vangeli, Gesù moltiplicò pani e pesci; la metafora è chiara, la citazione è molto più che un’allusione, perché la Pardo, ci racconta come, i “graduati” in Rai siano numerosissimi, quasi quanto i soldati semplici. Altra nota dolente è l’analisi della situazione dei Tgr. La testata conta 851 persone, di cui ben 689 giornalisti, ed è diretta da Angela Buttiglione, che la Pardo ribattezza `Sister Angela` per la sua fede cattolica e la grande vicinanza, non solo ideale, al Vaticano. La Pardo ci racconta che la Buttiglione dirige la Tgr, non dalla scomoda e decentrata Saxa Rubra, ma da un ufficio nel palazzo Rai di Borgo Sant`Angelo, a due passi da Vaticano, dove, peraltro, la Buttiglione sarebbe di casa, perché spesso è ospite del Pontefice. Ce l’ha un po’ con la Tgr, di cui racconta, come in alcune regioni si rasenti il ridicolo. Per esempio nella sede di Cosenza ci sono 8 tra capiredattori, vice e capiservizi, cioè tanti quanti sono i dipendenti effetti della sede. Idem in Sicilia, dove, tra le sedi di Palermo e Catania ci sono ben undici graduati. Ma al danno si è aggiunta la beffa, perché come ci ricorda la Pardo, recentemente, è stata introdotta la trasmissione Buongiorno regione, per la quale è stato bandito un concorso per nuove assunzioni. Di positivo c’è il concorso, sempre che sia stato regolare, ma ci si chiede, legittimamente: ce n’era proprio bisogno, visti i numeri?! Se poi consideriamo che i nuovi notiziari del mattino a diffusione regionale sono frutto di un`operazione che costerà 40 milioni di euro… la risposta dovrebbe essere scontata. Invece pare siano tutti soddisfatti, perché, grazie a questa nuova trasmissione, sono migliorati i rapporti con le istituzioni locali. Ah però! Tanto di cappello. La Piova Rai racconta anche delle illogiche e stratosferiche multe pagate dalla televisione di Stato; si avventura nei meandri delle buonuscite milionarie, delle misteriose sparizioni di documenti e delle lotte intestine e fratricide. Sono tutti episodi amari, gravi, se si considera che in ballo ci sono milioni di euro dei cittadini sprecati. Tutti noi capiamo bene come la Rai, essendo una grande azienda, possa avere molti problemi, ma sappiamo anche che ha grandi potenzialità ed è una ricchezza per il nostro Paese, ragion per cui, forse, le cose dovrebbero essere affrontate diversamente, partendo da ben altri principi, e non dalla politica e dall’opportunismo. Il legame con la politica appunto, è un altro degli aspetti spinosi di questa azienda. Alla Rai sono passati tutti, e lei, li ha digeriti tutti, dai bianchi ai rossi, dai socialisti ai fascisti, fino a Forza Italia. E’ successo di tutto, dalle guerre satellitari, al conflitto d’interessi, ai clientelismi, agli infiltrati, alle segretarie del premier divenute dirigenti di settori cardine, alle intercettazioni, agli editti bulgari, ai quattrini dilapidati… Insomma, qualcuno potrebbe dire, che è già un miracolo che stia ancora in piedi. E invece nonostante tutto in piedi ci sta eccome, ma solo perché è una piovra dai lunghi tentacoli, che un punto cui aggrapparsi lo trova sempre. Luigina Dinnella
Denise Pardo
La Piovra rai
Sprechi, vizi e privilegi della televisione di Stato
Grandi Passaggi Bompiani
192 pagg.
17 euro
Maggio 2009

Venuto al mondo... a metà

Venuto al mondo… a metà

Esistono varie tipologie di scrittori, quelli che esplicitano per filo e per segno tutti gli aspetti e le sfumature del proprio racconto, e quelli che invece procedono per sottrazione, fidando sull'implicito ed il non detto. Il nuovo, fluviale romanzo di Margaret Mazzantini, Venuto al mondo, rientra nella prima tipologia, non solo e non tanto per la sua dimensione (più di cinquecento pagine), ma prima ancora per la vastità dei temi trattati e per la scrittura che li sostiene. Per dirla con parole semplici, c’è “troppa carne al fuoco”. Il temerario romanzo, racconta di cose del calibro della vita e la morte, la pace e la guerra. Gemma riceve una telefonata da Sarajevo, è un vecchio amico che le chiede di tornare in quella città che ha significato tanto per lei. La donna decide di affrontare il passato recandosi a Sarajevo insieme al figlio perché vuole che veda quella città in cui lei aveva conosciuto e amato Diego, quel padre che il ragazzo non ha mai conosciuto perché rimasto vittima indiretta della guerra che ha insanguinato la Bosnia. L’arrivo è la riapertura di una ferita. Il romanzo dovrebbe ferire, lacerare, sconvolgere, e denudare ogni falsa coscienza, insomma buttarci in mezzo al dolore senza offrire ripari. Ma ci riesce solo in parte; se solo fosse stato meno lungo, meno descrittivo, meno volutamente etico, forse… Il messaggio che ogni lettore alla fine porta con sé, dell’idea che anche dall’orrore possa nascere qualcosa, lo si deve alla vita che ce lo insegna. Gemma, descritta come una sorta di eroina, in realtà, appare come una figlia privilegiata dei nostri tempi, e suscita, a dire il vero, anche un po’ di antipatia e di rabbia, perché alla fine, risulta una donna grigia e mediocre, perché la sua disperazione per la sterilità, sembra dovuta più alla paura di perdere l’uomo che ama, che non alla gioia negata di avere un figlio. Il libro ci racconta una storia di guerra ma non aggiunge nulla a quanto mediamente noi italiani sappiamo, poco o nulla, degli eventi bosniaci di quegli anni. Né ci aiuta a conoscere meglio le popolazioni coinvolte. La dimensione dell’opera è oltretutto appesantita dai lunghi passaggi, meramente descrittivi, ed anche la storia d’amore appare abbastanza stereotipata. Non se ne può più della “ragazza di buona famiglia” che si innamora “dell’intellettuale vagabondo”! E’ un cliché troppo abusato. Il riscatto del libro risiede nella capacità di introspezione psicologica della Mazzantini, e nel finale in cui l'autrice aggiusta il tiro, ma soprattutto nella trattazione, assolutamente particolare, della figura paterna. E’ proprio il tema della paternità, per come viene sviluppato, che dà al romanzo un’interessante “lettura”. C’è il padre di Gemma, che nel silenzio funge da mentore di tutta la famiglia. C’è il padre assente di Diego, venuto meno al suo ruolo, perché morto giovane. C’è Gojko, l’amico bosniaco di Gemma, che decreta la fine dell'infanzia di Pietro, iniziandolo al mondo degli adulti, durante il viaggio a Sarajevo. E c’è Giuliano, il secondo marito di Gemma, colui che si è preso cura di Pietro senza esserne il padre biologico. Un’altra figura interessante del romanzo è Aska, una giovane bosniaca, che proprio come la Madonna, donerà a Gemma il figlio che lei non ha potuto dare alla luce, quel Pietro, senza padri, ma con troppi padri, che sembra assumere il ruolo di colui che riscatta, con la sua stessa esistenza, le colpe del mondo. Il principale difetto del libro è forse proprio il racconto della guerra, che non ha la forza di “arrivare” al cuore. Ed anche l’atto di denuncia verso la solidarietà “da salotto”, di chi, a pochi chilometri di distanza, ha permesso quel massacro, non è del tutto compiuto, perché chi ha in mano il libro non ne annusa le macerie, né scruta i volti, nè vive le emozioni, credendole proprie. Luigina Dinnella.
Margaret Mazzantini
Venuto al mondo
Arnoldo Mondadori Editore novembre 2008
529 pagine
20 euro

Sergio Leone, quando il cinema era grande

Sergio Leone: Quando il cinema era grande
Sergio Leone è scomparso venti anni fa, oggi avrebbe festeggiato ottant'anni, e forse lui stesso sarebbe sorpreso di come la sua fama e notorietà non conoscano barriere né geografiche, né generazionali. Chissà cosa penserebbe dei molti giovanissimi che citano a memoria interi dialoghi dei suoi film; delle migliaia di suoi fans che riversano su Facebook la loro passione per il suo cinema. Oggi Leone è un fenomeno culturale, probabilmente perché il suo cinema, “popolare”, ma nel senso più nobile del termine, è stato finalmente e definitivamente acclarato come “grande”. Oggi tutti, anche i più scettici hanno rivalutato il suo lavoro, al punto che istituzioni ed università continuano a studiarlo e ad omaggiarlo, come ha fatto la Casa del Cinema di Roma, un luogo dove il cinema è culto, è scuola, è ricordo. Dal 30 aprile al 3 maggio lo è stato ancor di più, perché in quelle sale si è materializzato il mito di Sergio Leone, attraverso le proiezioni dei suoi film ed il ricordo chi l’ha conosciuto ed amato. Leone è stato forse l’ultimo inventore d’immagini e di stile che la critica è stata “costretta” a scoprire e a valorizzare come merita. A vent’anni dalla sua morte, oggi Leone, è più vivo che mai, ed è considerato uno dei più importanti registi della storia del cinema, nonostante nella sua carriera, abbia diretto pochi film. Il suo modo di fare cinema è stato innovativo ed originale, ed il suo stile ha fatto scuola, influenzando molti autori, dai colleghi contemporanei fino alle ultimissime leve. Da Kubrick a Tarantino. Un cinema, il suo, fatto di primi piani, alla ricerca assoluta di un dettaglio, caratterizzato da sceneggiature violente ed al tempo stesso intrise di ironia, dal montaggio serrato, da sequenze con interminabili silenzi carichi di contenuto. Leone ha sempre raccontato storie personali ed intime di uomini, senza mai trascurare di inserire sullo sfondo la “grande storia”. Nei suoi film non ci sono eroi, forse perché ha voluto sottolineare come sia difficile individuare il confine tra il bene e il male, e come siano spesso dei punti di vista di chi osserva, e non dei valori assoluti. E’ lui il capostipite del genere “spaghetti-western”, un cult ormai per molte generazioni. Come non ricordare film come "Per un pugno di dollari", un successo strepitoso, uno dei massimi del cinema italiano, il "Il buono, il brutto, il cattivo", una pietra miliare del western italiano, "C'era una volta il West" capolavoro assoluto e cervellotico di montaggio. Ma è con “C’era una volta in America” che il maestro italiano firma la sua opera assoluta, quella che costituisce la sintesi più completa della sua arte. Tre ore e quaranta di cinema, con la C maiuscola, un opera epica, nella quale racconta la vita di due amici gangsters, interpretato da Robert De Niro e James Wood, considerato da molti uno dei più grandi film mai girati nella storia di quest’arte. Dai solari paesaggi western, Leone passa all’oscurità di New York, e ci consegna un appassionante e corale affresco di un’epopea. E’ un emozionante e commovente storia virile, fatta di amicizie e tradimenti, di passioni e violenze. Ma “C’era una volta in America” è anche una saga romantica, vista dagli occhi di un italiano che non ha mai smesso di pensare all’America come al paese dei sogni, nonostante tutte le sue contraddizioni. E’ l’ultimo film di Leone, è di fatto diventa il suo nostalgico e malinconico commiato. Favolose le musiche di Ennio Morricone, indimenticabile il sorriso finale di De Niro che rimarrà una delle immagini cinematografiche più intense. Per Clint Eastwood Leone era grande perché non aveva paura di fare qualcosa di nuovo. Per Claudia Cardinale il cinema è proprio lui, per come amava questa meravigliosa finzione in tutti i suoi aspetti, dagli attori, al prodotto finito fino alla vita di set. E’ stato uno dei pochi registi capace di portare al cinema tutti, dagli adolescenti agli adulti, dagli intellettuali agli analfabeti. Siamo in molti a rimpiangere che la morte ce l’abbia strappato prima che potesse regalarci un’altra opera, che si annunciava grandiosa, un film, che non ha fatto in tempo a girare, sull’assedio tedesco di Leningrado. Luigina Dinnella

De André, la fierezza di essere contro

Fabrizio De Andrè: la fierezza di essere contro
Fabrizio De André ci ha lasciati dieci anni fa in modo discreto, come discreto era il suo sorriso. Non altrettanto può dirsi della sua opera, che invece è sempre stata “invasiva” e “corrosiva”. Con De André è scomparso un amico che ha accompagnato le nostre riflessioni, che ci ha regalato preziosi momenti di poesia. Ma la sua morte ha lasciato orfani, soprattutto, quanti continuano a volere un’Italia contraria al conformismo, perché la sua è stata, e continua ad essere, una voce libera ed anarchica, se non altro per il coraggio e la coerenza d'aver scelto di sottolineare i tratti nobili degli sconfitti, e di averli affrancati dai ghetti cui spesso sono destinati dai più. Nel decennale della sua scomparsa, saranno molte le manifestazioni dedicate al suo ricordo. L’evento più emozionante sarà forse la serata speciale che la trasmissione televisiva, condotta da Fabio Fazio, “Che tempo che fa”, gli dedicherà l’11 gennaio. Speciale, perché moltissime radio si collegheranno in diretta con la trasmissione, e quindi ci sarà un momento in cui su tutte le frequenze radio, contemporaneamente, si ascolterà una canzone di Faber, è così che lo chiamano gli intimi. All’Auditorium di Roma, Ernesto Assante e Gino Castaldo, noti critici musicali, dedicheranno il 12 gennaio, una serata alla musica, ai pensieri, al ricchissimo lavoro di De Andrè, e ripercorreranno le tappe del suo percorso artistico nella canzone d’autore e nella poesia; una poesia semplice ed essenziale, in grado di raggiungere tutti. Un viaggio, quello di Fabrizio De Andrè, cominciato negli anni Sessanta e giunto fino agli anni Novanta. Un cammino che ebbe inizio dalla Via del campo, prolungamento del famoso carrugio genovese di Via Pré, strada tanto proibita di giorno, quanto ambita e frequentata di notte. È in quel ghetto di umanità respinta, ma segretamente bramata, che hanno preso corpo le sue ispirazioni, è lì che è nata la sua antologia di vinti, la cui essenza di persone contava per De Andrè, più delle loro azioni e del loro passato. Ad accompagnare Assante e Castaldo saranno due “grandi” della storia della musica italiana, Nicola Piovani e Mauro Pagani. Entrambi, compagni di lavoro e di vita del cantautore genovese, due collaboratori preziosi che hanno arricchito, con la loro genialità, l’opera di De Andrè. Naturalmente si canteranno le sue canzoni, tra le quali una bellissima versione del brano “Ho visto Nina volare”, arricchito dalle voce stessa di Fabrizio De Andrè. Non mancheranno le piazze e i molti luoghi, dove, come ormai avviene da 10 anni, molti giovani, senza dirsi niente, si radunano con le chitarre per cantare il meraviglioso affresco umano di chi, per usare le parole di De Andrè, “ha perso la strada”, ma che grazie a lui, ha acquistato dignità di esistere. Luigina Dinnella.

L'etica del buon giornalismo

L’etica del buon giornalismo
Il grado di maturità e democrazia di un popolo lo si valuta anche dal tipo di informazione di cui dispone. In un Paese come il nostro, dove la contiguità del potere politico con il giornalismo è forte; dove si viola con eccessiva leggerezza la privacy, sbattendo spesso il mostro in prima pagina senza aver fatto i dovuti accertamenti; dove ci sono molti commentatori e pochi reporter; dove i fatti stanno sparendo dalle pagine dei quotidiani; dove troppo spesso i giornalisti sono gli ospiti fissi di una cerimonia chiamata conferenza stampa; dove vige solo la finalità commerciale, che induce a trattare il giornale come una merce qualsiasi, e si sa, la logica commerciale, non va proprio di pari passi con l’etica, non può esserci un “grande giornalismo”. Tutto questo è analizzato in "Cattive notizie - Dell’etica del buon giornalismo e dei danni da malainformazione”, un libro di Vittorio Roidi, cronista prima per il Messaggero, poi per la Rai, e dal 2001 al 2007 segretario dell’Ordine nazionale dei giornalisti. Oggi insegna alla scuola di giornalismo di Urbino e tiene un corso di etica e deontologia professionale alla Sapienza. Con questo libro Roidi tenta di riportare l'etica di questa professione al centro del dibattito sulla crisi della stampa. La sua analisi comincia, ovviamente, dalla figura del giornalista, dalla funzione che essa riveste nella società e dalla grande responsabilità che gli viene delegata della collettività. “Cattive notizie” non è un manuale per aspiranti giornalisti, ma un testo che affronta gli aspetti più delicati di questa professione. E’ la riflessione su un mestiere che troppe volte rischia di cadere preda della cattiva informazione. E’ un libro che parla di cattivo giornalismo, che tenta di identificarlo e di indagarne le cause, che per Roidi, risiedono nella superficialità, nella partigianeria, nella faziosità e nella subalternità ai poteri forti. Per Roidi, principi quali la libertà di stampa, privacy, deontologia professionale, obiettività, limiti della satira, sono un patrimonio di regole indispensabili, ma troppo spesso disattese e, quel che è più grave, non sempre in buona fede. Roidi, in questo suo libro non è tenero con i colleghi, e lascia trasparire la sua ammirazione per lo stile e la professionalità dell’informazione anglosassone. Le leggi sulla stampa, i codici deontologici, le Authority, gli Ordini professionali, afferma Roidi, possono aiutare e garantire il giornalista nello svolgimento del suo lavoro, ma nessuna carta sarà mai sufficiente a “fornirgli” l'indipendenza, se non entreranno in gioco la sua coscienza e il suo spirito libero, e per rafforzarli, afferma Roidi, bisogna tornare a considerare il giornalismo come attività al servizio della comunità dei cittadini, responsabilizzare e rendere autonomo chi fa questo mestiere, e soprattutto far capire che non basta parlare ad un microfono per essere giornalisti. Un altro difetto endemico della nostra stampa, per l’autore, è la tendenza a fare battaglie politiche che spesso hanno poco a che vedere con il servizio al cittadino. Oggi che i mezzi di comunicazione sono tanti, deve esistere una sola etica, che è quella di cercare la verità. E’ questa la prima regola, dice Roidi, affinché il giornalismo possa tornare ad essere uno strumento di democrazia. Per Roidi, il tanto decantato avvento di Internet non ha migliorato le cose, anzi, chiunque oggi smanettando davanti ad un computer può definirsi giornalista. Oggi più che mai, il diritto all'informazione deve tornare ad essere, non un privilegio del giornalista, ma una componente della libertà del cittadino, anzi una garanzia della democraticità del sistema, e perché ciò corrisponda accada, occorre che il giornalismo sia scrupoloso, corretto e rigoroso, come scrive Stefano Rodotà nella prefazione a questo libro. Luigina Dinnella

Cattive Notizie – dell’etica del buon giornalismo e dei danni da malainformazione
Vittorio Roidi
Prezzo 18,00 euro
Pagine 269
Editore Centro doc. Giornalistica
2008

Non è un paese per giudici

Non è un Paese per giudici

Superare un concorso in magistratura, si sa, non è impresa semplice; tanto studio e molti sacrifici, ma per chi sogna di indossare la toga, non si tratta di rinunce, ma di un forte stimolo a far parte di una categoria, che avrà pure i suoi eccessi nel delirio di onnipotenza che a volte genera, ma è pur sempre una delle più rispettabili ed ambite. La toga non è un abito qualsiasi, sta bene solo indosso a chi ha le spalle dritte e la testa alta. Purtroppo però, sono in molti quelli che per averla indossata, forse troppo bene, se la sono ritrovata appoggiata sulla propria bara, insieme al tricolore. La toga è un segno di fedeltà alla legge, che troppe volte è stata macchiata dal sangue. In un Paese in crisi, non solo economica, ma di coraggio, Paride Leporace, giornalista calabrese e direttore del “Il Quotidiano della Basilicata”, fa il suo esordio in libreria, con “Toghe rosso sangue”, sottotitolato “La vita e la morte dei magistrati italiani assassinati nel nome della giustizia”. L’intento principale del libro è quello di restituire alla memoria collettiva i nomi e le storie dei 25 giudici assassinati in Italia. Il merito di Leporace è di non aver voluto suscitare la troppo facile pietas umana del dopo. Non c’è retorica nelle sue pagine, ma solo il “senso del dovere” di un cittadino che ha ben chiaro in mente quale sia lo scopo della sua professione; di chi sa che il mestiere di giornalista non si esaurisce nel racconto dei fatti, ma nel dovere di stimolare, attraverso il ricordo, quel senso civico, che purtroppo è un valore in caduta libera, ed appartiene sempre a meno persone. Leporace ricostruisce il contesto storico e sociale nel quale sono maturati questi omicidi, attraverso non solo la cronaca dei giornali del tempo, ma soprattutto raccogliendo le testimonianze dei parenti, degli amici, e a volte anche di coloro la cui mano ha premuto il grilletto. L’obiettivo di Leporace non era quello di farne dei santi, o degli eroi, ma quello di salvare, chi è stato costretto a dare la vita “nell’esercizio delle sue funzioni”, quantomeno dalla spietata condanna dell’oblio. Leporace utilizzando fonti rigorose e aneddoti singolari, ha analizzando il come, il quando ed il perché delle loro morti, e non ha mai trascurato di raccontarci anche chi erano e come vissero gli uomini, prima dei magistrati. Sono tutti uomini, eccetto una donna, Francesca Morvillo, magistrato e moglie discreta di Giovanni Falcone, tutti con l'assoluta ed a volte, incosciente coerenza, di chi sta servendo lo Stato troppo in fondo, tutti uccisi fra il 1969 e il 1995. Sono 25 vite umane sacrificate in nome di oscuri disegni eversivi, i cui nomi, se si escludono alcune eccezioni, come Falcone e Borsellino, sono sconosciuti. Leporace compone con le 25 biografie, un mosaico, e lo inserisce nel più ampio contesto di trent'anni di storia italica. Apparentemente sembrano omicidi diversi, eseguiti da uomini ed associazioni diverse, ma a lettura ultimata, si comprende che il movente è stato sempre lo stesso: eliminati perché scomodi, perché desiderosi di uno Stato più pulito e sano, perché portatori di verità che potevano davvero cambiare le sorti di questo Paese. Il libro, si legge con un pizzico di apprensione, benché il finale sia noto, si ha quasi la sensazione di sperare che non sia così. Quella di Leporace è davvero un'opera educativa ed appassionante che colma un ingiusto vuoto di conoscenza. Luigina Dinnella.

Toghe rosso sangue La vita e la morte dei magistrati italiani assassinati nel nome della giustiziaParide LeporaceGennaio 2009
Newton Compton EdizioniEuro 12,90
Pag. 314

Intervista a Luca Argentero

Luca Argentero: glamour e credibile
Il Grande Fratello è un’esperienza che appartiene ad un’altra vita. Luca Argentero è, in questo momento, l’attore più inaspettatamente quotato. Eh sì, perché chi avrebbe scommesso su un reduce della casa più spiata d’Italia?! Ma lui, dalla televisione commerciale, è riuscito ad affrancarsene in pieno. Classe 1978, una laurea in Economia e Commercio alla Bocconi, un debutto nella serie Tv Carabinieri. Nel 2006 viene scelto da Ferzan Ozpetek per vestire i panni, non facili, di un omosessuale, e lui saprà indossarli con molta grazia, nel film Saturno contro. E’ il suo salto di qualità. Da allora, passa di film in film da A casa nostra di Francesca Comencini, a Lezioni di cioccolato di Cuppellini, a Solo un padre di Licini. Nel 2009, curiosamente va verso un nuovo ruolo omosessuale in Diverso da chi? E sempre nel 2009, è protagonista del film di Placido Il Grande sogno, e ha già all’attivo una nomination ai
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David di Donatello 2009 come miglior attore. Luca è disponibile ed entusiasta per il suo ingresso a pieno regime nel mondo del cinema.
Quanto ha pagato Ozpetek per averla sdoganata?
Lo ringrazio infinitamente ogni volta che lo incontro! E’ una persona che sento spesso, ed è un ottimo consigliere. E’ a lui che mi sono rivolto quando ho avuto dei dubbi.
Il suo ultimo film è diretto da Michele Placido. Lui è polemico, duro, rissoso, lei è tranquillo e pacato. Questa differenza caratteriale, almeno apparente, le ha creato problemi?
Auguro a tutti quelli che fanno il mio lavoro di avere la fortuna di lavorare con Placido. È stata una delle esperienze più educative, formative ed interessanti della mia vita. Placido è una vera forza. Ognuno ha il suo carattere ed il suo modo di porsi. Pochi però hanno la sua solidità di pensiero. Se uno ha delle idee, ed oggi non è così scontato, è giusto che le difenda.
Un sogno della tua vita?
In questo momento, visto che sono un neo sposo, mi piacerebbe vivere l’attesa fuori dalla sala parto. Davvero non vedo l’ora!
Con quale regista vorresti lavorare?
Non penso ad un regista in particolare, ma so che vorrei interpretare un super eroe, mi piacerebbe avere un super potere di qualsiasi tipo, anche piccolissimo. Finora sono soddisfatto perché ho potuto cimentarmi con ruoli sempre molto diversi fra loro. Penso sia l’unico modo per crescere e per migliorarsi. Qualsiasi regista mi offra la possibilità di cambiare realmente, rispetto a quello che ho fatto prima, è ben accetto.
Nei tuoi film hai dovuto girare delle scene di grande intimità… anche con uomini. Imbarazzo?
Le scene intime sono imbarazzanti in generale. Condividerle poi, anche se per finta, con altre 20 persone della troupe, è uno scoglio sempre, sia che si tratti di un uomo o di una donna. Il mio caso è certamente un po’ buffo davvero, perché mi sono trovato quasi lo stesso numero di volte con uomini e con donne… Diciamo che ho pensato al risultato che dovevo ottenere.
Finora hai lavorato con grandi nomi del giovane cinema italiano, e con tutti sembri molto affiatato.
E’ fortuna. Non puoi farti diventare simpatica una persona che non trovi tale. A me è andata bene, perché con tutti, c’è stata una forte empatia, è questo credo, abbia giovato ai film. Soprattutto nelle commedie è essenziale che tu per primo ti diverta, se vuoi che anche il pubblico lo faccia. Credo che la vera forza di questi film sia nei dialoghi, nella forza delle sceneggiature, nella totale assenza di volgarità. Questo è alla base di un cinema buono, poi viene tutto il resto.
I film che hai interpretato hanno una nota comune, sono commedie che trattano temi sociali molto delicati.
E’ una caratteristica delle commedie scritte da Fabio Bonifaci quella di prendere un tema sociale importante, su cui bisogna fare attenzione a scherzare, e trattarlo con delicatezza, riuscendo a ridere non di quella cosa lì, ma con quella cosa lì. Non è facile, mantenere un livello di commedia che sia equilibrato rispetto al tema che si sta trattando, così come non è facile ottenere una misura giusta quando interpreti personaggi come l’omosessuale, che presta il fianco molto facilmente a diventare una macchietta, se non sei attento alla misura in cui lo rappresenti.
Sei sul set dell’ultimo film di Julia Roberts, per la tua prima esperienza con una majors americana. Sembra che il 2009 sia il tuo anno…E’ un bellissimo momento, ma c’è anche un’ansia tremenda. Non ci dormo la notte! Anche se buona parte di questa preoccupazione me la mettono gli altri. Luigina Dinnella